Storia del rock - L'altro Mediterraneo - Stiamo vivendo l'epoca d'oro del medi-jazz? :: Gli Speciali di OndaRock

2022-08-27 20:49:16 By : Mr. TAILG Light

Le sette note le conosciamo tutti. Se ci aggiungiamo le alterazioni, diesis e bemolle, otteniamo dodici altezze base, che spostate su oppure giù di un’ottava (il più intuitivo e universale degli intervalli) riempiono tutto il pentagramma. Da ognuno di questi toni è possibile partire per costruire una scala, maggiore o minore, e raggruppando più note di una stessa scala si formano accordi - alcuni dei quali suonano pieni e luminosi, altri oscuri o inquieti, altri cacofonici, altri ancora incerti e sospesi, come in attesa di cedere il passo a qualche combinazione di suoni più risolutiva. Ecco, in poche parole, la tonalità: abbinata a una selezione di strumenti dal vasto assortimento della classica e del rock, più uno a scelta tra i due schemi ritmici fondamentali - un colpo forte ogni 4, oppure ogni 3 - consente di dar vita a un’infinità di possibili forme musicali. Stili e sonorità capaci di coprire l’intera gamma delle emozioni umane, andando a costituire linguaggi che, ascolto dopo ascolto, risultano sempre più coesi e immediatamente comunicativi. Il jazz può essere visto come uno in particolare tra i molti rami di questo albero di possibilità. Lo caratterizzano l’importanza assegnata al dialogo tra composizione e improvvisazione, e la tendenza a ricorrere a un trucchetto ritmico sottile ma assai incisivo, una leggera asimmetria di accenti e durate tra note che, sulla carta, dovrebbero avere la stessa lunghezza temporale: lo swing. Semplice, vero? Troppo. Non solo perché la ricostruzione fornita è eccessivamente formalista e ignora deliberatamente la ridda di questioni sociali, culturali, storiche, geografiche, etniche che danno corpo e anima a qualunque genere musicale. No, il quadro tracciato è troppo riduttivo perché non rende conto di una caratteristica cruciale della musica in generale e del jazz in particolare: la sua irrefrenabile tendenza a uscire dagli schemi, disfarsi dei “si deve”, dei “si fa” e in fin dei conti anche dei “si può” imperanti nel proprio ambito per andare a cercarne (o crearne) altri. Mille sono i modi con cui il jazz ha ampliato i suoi orizzonti, rivedendo questa o quell’altra condizione al contorno per dar vita a nuove possibilità espressive. C’è jazz senza improvvisazione e jazz senza swing; jazz dissonante o quasi indistinguibile dalla classica e dal pop; jazz che imbocca le scale da gradini diversi dal primo per vedere l’effetto che fa, o rifugge ogni struttura precostituita alla ricerca della più completa libertà espressiva. E poi c’è Dave Brubeck, che nel 1959 intraprende una via assieme elementare e sfidante: trarre spunto dalla ricchezza ritmica e armonica di culture musicali differenti per aprire la via a territori tanto accessibili all’orecchio quanto quelli usuali, ma curiosamente sbalestranti e ancora del tutto inesplorati. Il disco si chiama “Time Out”, e contiene i due pezzi che sono il più celebre esempio di “mediorientalizzazione” in ambito jazz: “Blue Rondo a la Turk” e “Take Five”. Con le loro melodie indimenticabili e il loro utilizzo massiccio di tempi dispari, questi brani ormai diventati standard (e in qualche caso anche jingle per annunci pubblicitari) hanno mostrato e ancora mostrano al mondo occidentale l’esistenza di un universo al di là del 4/4 e degli zum-pa-pa da sala da ballo. Un mare di musica Di acqua sotto i ponti da allora ne è passata molta, ma il fulcro geografico dell’attenzione di Brubeck continua a essere - e forse è più che mai - uno snodo cruciale per molteplici percorsi creativi. I tempi sono davvero cambiati: il gesto di Brubeck, allora interpretato nell’ambito del cool jazz come rivoluzionario e progressista, oggi sarebbe letto come palese esempio di appropriazione culturale. Lo stesso discuterne, qui, come antesignano del jazz mediterraneo o medi-jazz rende l’articolo facilmente tacciabile di eurocentrismo (o americentrismo, o come si dica). Nel frattempo, il jazz è uscito da decenni dall’ambito afroamericano (e poi euro-americano) che ne ha determinato l’iniziale sviluppo e si è trasformato nel genere internazionale per eccellenza. Non solo perché, come molti altri, è prodotto e ascoltato in tutto il mondo, ma anche perché parte dell’essenza del jazz contemporaneo è che le sue formazioni comprendano musicisti di ogni estrazione e provenienti dai più svariati angoli del globo. In un contesto che, almeno in ambito intellettuale, presta attenzioni sempre maggiori alle identità culturali, è naturale che un numero crescente di artisti avverta il richiamo verso quelle che sente come proprie radici musicali, e voglia farsene interprete o ambasciatore. Queste radici, peraltro, hanno sia nei paesi del Nuovo che in quelli del Vecchio Mondo la tendenza a essere complesse matasse etniche e genealogiche, nient’affatto semplici da sciogliere ma senz’altro estremamente ricche, differenti e interessanti da esplorare. Il Mediterraneo, da sempre tanto elemento di separazione quanto tramite di scambi e commistioni, ha visto nei secoli l’alba e il tramonto di imperi e civiltà, è stato teatro di conflitti e tramite di innovazioni. Anche se oggi ha perso, perfino ai nostri occhi, il ruolo di riferimento assoluto dell’umanità, resta un crocevia essenziale di tensioni e opportunità, luogo d’incontro e scontro tra mondi al tempo stesso vicinissimi e lontanissimi. Abituati come siamo alla posizione privilegiata che occupiamo sulla mappa — l’Europa e l’Italia si protendono con penisole e isole nel bel mezzo del mare, dominandolo — tendiamo a vedere le sponde orientali e meridionali del Mediterraneo come altrove affascinanti, esotici, minacciosi o insignificanti. Dimentichiamo invece come il nostro presente e il nostro futuro siano indistricabilmente intrecciati a quei luoghi e quanta parte di ciò che consideriamo identitariamente come nostro sia frutto proprio del confronto con quelle coste e le terre che si estendono alle loro spalle. “Jazz mediterraneo” può voler dire molte cose. Può essere sinonimo di un terzomondismo un po’ consunto o prodotto di un esotismo dozzinale da cocktail bar; oppure sbocco creativo di approfondite ricerche etnografiche, così come approdo imprevisto di carriere nate e cresciute interamente in ambito tradizionale. Il medi-jazz non è una scena e nemmeno un genere; non è neanche un’etichetta particolarmente utilizzata dalla critica o dai promotori. È un’espressione di comodo, utile per raggruppare musiche e artisti che per una ragione o per l’altra hanno fatto del Mediterraneo e delle sue tradizioni un elemento cruciale della loro visione. Nello stilare questo articolo, la scelta è stata di concentrarsi sui percorsi non strettamente regionalistici, ma capaci - a volte anche a scapito della fedeltà alla propria cultura di appartenenza - di raccordare più sponde, opposte o contigue, del mare su cui si rispecchiano l’Europa Occidentale, i Balcani, il Medio Oriente, il Nordafrica. La decisione di concentrare l’indagine su artisti la cui carriera si sviluppi prevalentemente nell’ultimo decennio, oltre che a rispondere a criteri di maneggevolezza, vuole mettere al centro la vitalità e la contemporaneità degli orizzonti musicali trattati. Il messaggio vorrebbe essere: stiamo facendoci sfuggire un mucchio di roba interessante, ma siamo anche del tutto in tempo per rimetterci in pari! La rotta fin qui Il fatto che la musica qui proposta non formi un panorama coeso non significa che non sia possibile tracciarne almeno sommariamente una storia o identificarne elementi ricorrenti, sia su un piano biografico che su quello più strettamente musicale. Ben sapendo che è difficile, partendo da un campione limitato, scindere le caratteristiche generali dai propri bias di selezione, ecco comunque un tentativo di contestualizzazione. L’infatuazione mediorientale dei jazzisti occidentali non si è esaurita con Brubeck per riemergere nel 2010 a mo’ di fiume carsico. Era il 1967 quando il trombettista Don Ellis pubblicava “Electric Bath”, disco third stream in cui assai focosamente l’intera big band capitanata da Ellis si lanciava su scale di origine anatolica, impossibili in qualunque versione ortodossa o meno ortodossa dell’armonia presa a riferimento da un lato e dall’altro dell’Atlantico. Nei decenni a seguire, sono numerosi i blasonati musicisti di calibro internazionale che hanno “sciacquato i panni” in prossimità delle coste che furono degli abbasidi, in genere per singoli progetti: in molti casi si tratta di generali fascinazioni, sfociate in episodici prestiti strumentali (su “Broken Shadows” e “Science Fiction” di Ornette Coleman, usciti nel 1971 e 1972, il fiatista Dewey Redman impiega un oboe mediorientale accreditato come musette) o armonici e atmosferici (Herbie Mann, “Impressions Of The Middle East”, 1967). Più rare, ma documentate, le collaborazioni con musicisti locali: sempre del 1967 è “Noon In Tunisia” di George Gruntz (con Eberhard Weber, un venticinquenne Jean-Luc Ponty e cinque musicisti nordafricani); è del 1978 poi “Live In Ankara”, incontro tra il trombettista Don Cherry e un ensemble turco. In ambito fusion e jazz-rock sono invece frequenti i curry multi-etnici, spesso con elementi mediorientali: oltre a formazioni (quasi) completamente europee come Embryo (Germania), Area (Italia) e Archimedes Badkar (Svezia), sono significativi i franco-persiano-algerini Rahmann e i molteplici progetti portati avanti in terra svedese del percussionista turco Okay Temiz, tra i quali gli Oriental Wind. Parallelamente, si sviluppano nei paesi del Mediterraneo sudorientale, se non scene jazzistiche vere e proprie, almeno fenomeni abbondantemente influenzati dagli stili jazz occidentali. Comincia piuttosto presto l’integrazione di strumenti tipici del jazz (su tutti il sassofono) nelle vaste orchestre che accompagnano nel mondo arabo i cantanti popolari. Negli anni Cinquanta, sono plateali le influenze jazzistiche nel rigoglioso pop dei fratelli libanesi Assi e Mansour Rahbani, compositori per una delle voci più in vista dell’intero mondo arabo, l’iconica cantante Fairouz (dal 1955 moglie di Assi). In Egitto, il batterista e compositore Salah Ragab riceve nel 1968 da Nasser lo specifico mandato di radunare una formazione che possa fare del jazz il nuovo idioma musicale post-rivoluzionario: debutta così la Cairo Jazz Band, che a dispetto dei finanziamenti statali non ottiene nei suoi numerosi anni di attività il consenso popolare inizialmente sperato (Ragab svilupperà però un rapporto di amicizia con Sun Ra, con cui suonerà ripetutamente fino allo scioglimento della Cairo Jazz Band nel 1974: la quasi totalità delle registrazioni è raccolta in “The Sun Ra Arkestra Meets Salah Ragab In Egypt”, del 1983). È di nuovo con Fairouz che, dalla fine degli anni Settanta, gli influssi jazzistici conquistano ulteriore spazio nel mondo arabo grazie al contributo del figlio Ziad Rahbani, subentrato al padre e allo zio come principale autore. Con la musica di Rahbani Jr. trova una qualche diffusione l’etichetta di “oriental jazz”, e la sua figura ha svolto più di recente un ruolo determinante nel proporre cantanti come Salma Mousfi e Latifa come raffinate interpreti di jazz vocale. Al di fuori del mondo arabo, Turchia, Israele e le repubbliche sovietiche del Caucaso sviluppano scene jazz nazionali più estese, influenzate da quelle occidentali e talvolta in contatto con esse. Fa storia a sé, invece, il caso di Ahmed Abdul-Malik, contrabbassista americano di presunte (ma dibattute) radici sudanesi che già sul finire degli anni Cinquanta imbraccia il liuto mediorientale oud e si dedica al sincretismo musicale tra big band jazz e forme musicali di origine araba. Bassista per Thelonious Monk, Art Blakey e Herbie Mann, Ahmed Abdul-Malik è stato oggetto di indagini biografiche che sembrano averne accertato le origini caraibiche e il nome natale di Jonathan Tim Jr.: la sua nuova identità sarebbe stata creata per conferire più credibilità alle sue peculiari esplorazioni musicali (apprezzabili, ad esempio, in “Jazz Sahara”, del 1959). Dalla fine degli anni Ottanta, iniziano a farsi strada anche su etichette e palchi occidentali musicisti provenienti da Levante e Nordafrica, spesso con collaborazioni importanti e uno stile da un lato personale, dall'altro immediatamente riconoscibile come espressione del suo contesto geografico. Ad aprire le danze è il suonatore di oud Rabih Abou-Khalil, libanese trasferitosi in Germania durante la guerra del 1978. Album come “Between Dusk And Dawn” (1987), “Al-Jadida” (1991) e soprattutto “Blue Camel” (1992, con Kenny Wheeler e Steve Swallow) lanciano il musicista come qualcosa di più del consueto “ospite esotico” già visto molte volte in precedenza, bensì come un artista di primo piano, capace di esprimere una sua originale visione del jazz senza farsi mettere in ombra dalla caratura internazionale dei comprimari. È del 1991 invece l’esordio solistico (su Ecm) di un altro suonatore di oud, il tunisino Anouar Brahem, il cui stile sospeso e rarefatto lo conduce negli anni successivi a incidere in qualità di co-leader con Jan Garbarek (“Madar”, 1994), Richard Galliano (“Khomsa”, 1995), John Surman e Dave Holland (“Thimar”, 1998). Quella che segue, lentamente tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila, e poi a passo accelerato nel corso dell’ultima decade, appare oggi come un’esplosione medi-jazz: decine e decine di artisti e formazioni, giovani e meno giovani, in Europa ma non soltanto, che con ambizioni molto differenti fondano la loro espressività su una completa fusione di impostazione jazzistica e costruzioni del Mediterraneo sudorientale. I loro percorsi possono trovare il movente nella curiosità - accompagnata da studio attento - verso linguaggi esterni alle proprie radici culturali dirette, ma più spesso sono legati alla riscoperta ed espressione della propria genealogia: per una larga parte delle musiche citate, è essenziale il contributo di musicisti che sono immigrati di prima, seconda o terza generazione dai paesi del Nordafrica o del Medio Oriente. Non vale la pena, ora, di abbozzare una sintesi del ricco quadro attuale: c’è il resto dell’articolo apposta. Può essere significativo, invece, ricapitolare un po' sbrigativamente alcune tappe intermedie tra la fase pionieristica di Abu-Khalil e Brahem e quella attuale. Il nu/acid jazz virato downtempo del franco-libanese Toufic Farroukh (quasi un St Germain levantino, almeno stando all'affascinante "Drab Zeen", del 2002); gli Hadouk Trio dell'ex-Gong Dider Malherbe, autori di una sintesi efficace tra strumentazione esotica e forme melodiche del tutto familiari al pubblico europeo. Il percorso ricco e sorprendente del contrabbassista francese Renaud Garcia-Fons, che dal 1997 di "Oriental Bass" inaugura una vena etno-jazz del tutto personale e intrigante, talvolta non lontana dall'immediatezza melodica del nostrano Gianluigi Trovesi. L'incontro fusion/nu jazz del sassofonista turco-svedese İlhan Erşahin, giunto al suo apice nel 2002 col proteiforme "Harikalar Diyarı (Wonderland)" e rinnovatosi nel 2010 con "Istanbul Sessions", in combutta col trombettista svizzero Erik Truffaz. Proprio quest'ultimo, in una carriera di continua sperimentazione stilistica, ha percorso anche traiettorie deliberatamente medi-jazz: ne è esempio lampante "Saloua", del 2005. A conclusione di questa carrellata del tutto parziale, un accenno anche a Jon Hassell, che appare nel 2009 su Ecm come comprimario nell'ambizioso progetto "Thulâthiyat", del pianista e compositore norvegese Jon Balke: una rilettura in chiave jazz e orchestrale dell'eredità culturale dell'Iberia musulmana, con la collaborazione della cantante marocchina Amina Alaoui. Piccolo dizionario musicale Dovendosi addentrare in una molteplicità di proposte differenti, è opportuno fissare alcuni riferimenti linguistici ricorrenti, che corrispondono ad altrettanti strumenti o concetti musicali significativi per le descrizioni che seguiranno. Anche per via dell’influenza del pensiero greco, nel corso dei secoli la teoria musicale è stata fortemente codificata, andando a costituire un corpus di nozioni e catalogazioni sostanzialmente indipendenti da quelli in uso in Occidente. Strumentazione ed elaborazione teorica si sono coevolute, dando vita a cordofoni, aerofoni, percussioni dalle possibilità tecniche diverse da quelle a noi più familiari. La forma più pratica per districarsi nei termini chiave è quella di un breve glossario, che ricorrendo a qualche semplificazione brutale tenti una parziale trasposizione concettuale e lessicale. Iqa’ (pl. iqa’at): cellula ritmica che compone il ciclo base della musica araba classica. A differenza di gran parte della musica occidentale, che vede il tempo di un’esecuzione come una sua caratteristica globale e concettualizza i cambi di ritmo come eccezioni, la composizione basata su iqa’ concepisce tempo e scansione ritmica come una proprietà locale, della durata di un ciclo: come nelle strutture aksak della musica balcanica, può essere del tutto naturale che uno stesso pezzo sia formato dall’accostamento di più iqa’ differenti sia per tempo (ce ne sono in 2/4, 3/4, 4/4, ma anche in 8/4, 10/4, 11/8, 13/8, 17/8…) che per scansione ritmica. Quest’ultima è indicata dalla successione di battiti profondi e sostenuti (dum) e secchi e acuti (tak) che identifica l’iqa’. Nelle forme musicali contemporanee, l’apparato teorico dell’iqa’ è passato in secondo piano, e per il più ristretto catalogo di schemi ritmici in uso è impiegato spesso il termine wazn (letteralmente “peso”, ma in maniera figurata anche metro poetico). Maqam o maqām (pl. maqāmāt): termine arabo che significa “luogo”, “posizione” e indica il modo melodico di una composizione, in maniera paragonabile alla modalità della teoria musicale occidentale (che tuttavia incentra la nozione più sugli aspetti armonici che su quelli melodici). Un maqam non si limita a individuare un insieme di note utilizzabili ovvero una scala (che è eptatonica, come gran parte di quelle occidentali), ma prevede anche l’attribuzione di specifici ruoli melodici alle note, nonché la definizione di semplici “frasi modello” (jins) a cui si associano funzioni melodiche e sensazioni riconoscibili - un po’ come nella tradizione classica occidentale avviene per gli accordi. Comprendendo anche un inventario di possibili strategie di transizione o modulazione tra un nodo melodico e l’altro, ogni maqam dei settantadue catalogati classicamente rappresenta uno schema compositivo e improvvisativo che copre gran parte degli aspetti non-ritmici di un’esecuzione. Oltre che nel mondo arabo, il sistema maqam è diffuso (con adattamenti) anche in Turchia e in Persia, dove forma un importante elemento delle tradizioni musicali. Oud: strumento a corde di origine persiana, appartenente alla categoria dei liuti a manico corto. Diffuso tradizionalmente e con variazioni locali in una vasta area che va dal Maghreb alla Persia, toccando la Turchia, il Caucaso e perfino la Grecia, l’oud è caratterizzato da dieci o dodici corde appaiate, più un’ulteriore corda bassa impiegata come bordone. Un’altra peculiarità, che lo rende particolarmente adattabile a contesti musicali differenti, è l’assenza di tasti: questa consente al musicista, come accade coi parenti del violino o il basso fretless, di realizzare virtualmente qualunque frequenza sonora compresa nell’estensione dello strumento, senza limitarsi alle possibilità discrete previste da una singola scala. Quarti di tono: l’introduzione, dalla seconda metà del Settecento, del temperamento equabile, standardizza le modalità di costruzione e accordatura degli strumenti in uso nella musica classica europea (e, di rimando, in quelle regionali), identificando fra loro note di altezza molto vicina (es. Do♯ e Re♭, Do e Re♭♭) e suddividendo un’ottava in dodici intervalli equivalenti chiamati semitoni. L’innovazione consente agli strumenti a tastiera di eseguire melodie e armonie su una qualunque delle scale del catalogo classico, a prescindere da quella di costruzione (su cui la diteggiatura risulta più facile). Un simile processo non avviene nelle culture musicali basate sul maqam, che è un sistema microtonale, in quanto prevede il ricorso a ripartizioni intervalliche inferiori al semitono. Di conseguenza, ogni strumento a tastiera tradizionale è adatto a uno o più specifici maqam, ma non ad altri, e strumenti come l’oud, più flessibili perché privi di tastiera, hanno un vantaggio competitivo significativo, che ne facilita la diffusione. Per consentire l’esecuzione di musiche fondate sul maqam anche con strumenti di derivazione occidentale, sono state talvolta introdotte modificazioni tecniche che permettono la produzione di note distanti un quarto di tono (mezzo semitono) l’una dall’altra: si tratta di una pratica approssimazione, sviluppata dalla prima metà del Novecento, che di fatto ripropone una identificazione tra suoni vicini analoga a quella del temperamento equabile, suddividendo l’ottava in ventiquattro intervalli anziché in dodici. Salterio: strumento a corde della famiglia della cetra, presente in Europa, Nordafrica e Asia in moltissime varianti locali (kantele, cimbalom, qanun, santur). Le molte corde metalliche, ciascuna corrispondente a una nota, sono vincolate a una tavola di legno e in genere pizzicate o percosse con appositi martelletti. Per quanto si tratti, come l’arpa o il pianoforte, di uno strumento di accordatura assai laboriosa, presentava originariamente un pregio nelle culture musicali che non utilizzano il temperamento equabile: essendo l’altezza di ogni corda modificabile tramite un’opportuna chiave, è possibile riaccordarle una ad una per eseguire brani che prevedano differenti intonazioni. Si ottiene così un significativo vantaggio in termini di trasportabilità: in linea di principio, a un musicista itinerante basterà portare con sé un salterio, e non una molteplicità di strumenti come potrebbe dover fare, ad esempio, un fiatista. Taqsīm (arabo) o taksim (turco): alla lettera “divisione”, è un genere di esecuzione strumentale di carattere improvvisativo, diffuso in tutto il Mediterraneo sudorientale. Le performance, che durano in genere tra i dieci e i quindici minuti, sono saldamente fondate sul maqam e prevedono l’esposizione di una modalità melodica principale, seguita da numerosi passaggi e modulazioni verso altri maqam accessori, per poi concludersi col ritorno al maqam fondamentale. Tra i molti strumenti utilizzati nelle esecuzioni, tendono a presentarsi con maggior frequenza l’oud, il buzuk e il saz (altri liuti, ma a manico lungo), il salterio e, nelle aree di influenza turca, il flauto ney. Disclaimer: di criteri e distorsioni Quello che state leggendo è un articolo turistico. Lo è consapevolmente, e senza vergogna: la pretesa non è quella di far calare il lettore nella vita e nella cultura musicale di altre terre e permettergli di leggerle come se fossero le proprie, bensì di indicare alcune mete capaci di colpire ed emozionare anche orecchie del tutto impreparate. L’approccio proposto ricalca quello che ha condotto alla stesura di questo testo: la scintilla da cui è nato il desiderio di approfondimento è stata la musica di alcuni artisti dall’immediata efficacia emotiva, e proprio i loro nomi occupano la prima parte della lista, quella più analitica. Si tratta di musicisti la cui opera non richiede all’ascoltatore occidentale alcuna mediazione o messa in discussione di certezze, se non una certa eventuale propensione per le strutture inusuali e l’intricatezza compositiva. Se vi piace “Take Five”, insomma, siete già a posto - ecco, siam tornati a Dave Brubeck! Procedendo con l’elenco dei dischi consigliati, si incontrano nomi dallo stile più ostico, così come lavori meno sgargianti, opere collaterali le cui qualità espressive si apprezzano con più facilità dopo aver preso un po’ di confidenza con strumenti e sonorità dominanti. Ma l’ordinamento è da prendersi ovviamente cum grano salis: in base alle predilezioni personali, qualcuno certamente troverà l’improvvisazione free di Gordon Grdina molto più immediatamente digeribile dei continui rovesciamenti prog di Tigran Hamasyan. Ci sono poi degli artisti che - del tutto pertinenti rispetto al tema trattato - non sono inclusi nella selezione proposta. Oltre all’ovvio filtro del ciò che è noto a chi scrive, anche biechi criteri estetici, personalissimi e opinabili, hanno avuto il loro peso. Non ci si deve stupire, insomma, se una panoramica che parte forzosamente da Dave Brubeck non offre poi posto agli sperimentalismi free-form degli egiziani Nadah El Shazly e Maurice Louce (però dai, eccoli citati, dunque piano con le lamentele). C’è poi almeno un’altra limitazione. La quasi totalità dei nomi che formano la selezione proposta opera nei paesi occidentali ed è accasata su etichette basate in Europa, Australia, Nordamerica. Qui entra in gioco, senz’altro, l’effetto dei bias di selezione che hanno operato nel corso degli approfondimenti per questo articolo: non è detto che un medi-jazz “autoctono” non ci sia (anzi, qualche nome incluso o citato di straforo prova il contrario), ma è evidente che - anche nell’era dell’internet - la sua visibilità sarà per un comune appassionato occidentale molto ridotta rispetto a quella che può essere ottenuta attraverso promoter, lanci giornalistici, concerti indirizzati specificamente al mondo occidentale. Anche il fattore familiarità incide: e con la lingua (un conto è cercare titoli e materiali scritti in alfabeto latino, un altro tentare di districarsi tra pagine e piattaforme in caratteri arabi), e soprattutto col linguaggio musicale. Si torna al tema del turismo: il contenuto del listone che segue è, già di per sé, roba per turisti. Si tratta di dischi confezionati a uso e consumo di orecchie occidentali, da artisti la cui sensibilità si è formata ascoltando il jazz occidentale più ancora che gli stili tradizionali da cui trae ispirazione. È molto probabile che sia più facile rispecchiarvisi per noialtri appassionati della musica da ascolto che per chi, di là dal mare, fosse cresciuto immerso in suoni somiglianti, sì, ma rivestiti di funzioni sociali completamente diverse. Forse questo toglie qualcosa al valore di questa musica, inteso come capacità di meravigliare, intrattenere, dare corpo sonoro a stati d’animo altrimenti impossibili da rappresentare? Lasciate che sia la musica a decidere: ecco una selezione di dischi, ordinata cronologicamente all'interno delle tre suddivisioni che la compongono. A lato, trovate anche una playlist introduttiva e una videografia di performance dal vivo. Buon ascolto e buona lettura! Sei per cominciare… Dhafer Youssef – Abu Nawas Rhapsody (Jazzland Recordings, 2010) Il nome di Dhafer Youssef è posto al crocevia delle molteplici traiettorie del jazz mediterraneo degli ultimi vent’anni. Tunisino, classe 1967, si forma alla scuola coranica ma presto si avvicina al jazz, “clandestinamente”, attraverso le corde dell’oud, liuto privo di tasti che diventerà il suo strumento d’elezione. Trasferitosi in Europa, incontra sul suo percorso le ricerche sul folklore di Paolo Fresu e il future jazz della scena norvegese di Nils Petter Molvær, Bugge Wesseltoft, Eivind Aarset. Con questi e altri musicisti firma già negli anni Duemila lavori di grande capacità evocativa (“Electric Sufi”, “Digital Prophecy”, “Omaggio alla world music”), inaugurando uno sposalizio di tradizione e modernità che trova il suo massimo compimento nel 2010 con “Abu Nawas Rhapsody”. Inciso con un quartetto che vede alla batteria Mark Guiliana e al pianoforte un ancora poco noto Tigran Hamasyan, l’album è una trasposizione musicale di alcuni componimenti di Abū Nuwās al-Salamī, poeta persiano che visse a Baghdad in epoca abbaside (756-814 d.C.) ed è ricordato per l’inaugurazione di una stagione nuova nella poesia araba, nonché per la delicatezza e l’ironia con cui nelle sue liriche celebrò ebbrezza, tradimenti, amori omosessuali. A dire il vero, l’ispirazione edonistica non è l’elemento più vistoso della “rapsodia”, che svetta per il suo originale connubio di malinconia, dinamismo e spiritualità. Oltre al suono caldo dell’oud, dominano nel disco l’estro pianistico di Hamasyan - capace di alternare elegia e furia esecutiva, sempre mantenendo fisso il richiamo armonico alle sue radici armene - e il canto salmodiante di Dhafer Youssef. Figlio di muezzin, il musicista ha coltivato lo studio della voce accanto a quello del suo strumento a corde, e la utilizza con grande padronanza ora per creare lente litanie di grande efficacia atmosferica, ora per occupare le ottave alte con timbri davvero vicinissimi a quelli della tromba. Variopinto, struggente e sorretto da una perizia esecutiva fuori dal comune, “Abu Nawas Rhapsody” è fusion nell’accezione più letterale del termine: un incontro di mondi, che dialogano e si combinano dando vita a un universo di sensazioni prima inesistente. Avishai Cohen – Seven Seas (Emi/Blue Note, 2011) Nei suoi più di vent’anni di pubblicazioni come contrabbassista e leader, l’israeliano Avishai Cohen ha sviluppato una tavolozza capace di spaziare dal post-bop all’easy listening alla fusion latineggiante in maniera personale e immediatamente riconoscibile grazie alla sorprendente inventiva melodica con cui il musicista utilizza il suo strumento. È nel 2006 di “Continuo” però che gli influssi mediorientali, da sempre presenti nella sua musica, prendono il sopravvento definendo la declinazione più iconica del suo stile: un idioma raffinato e cosmopolita, che reinterpreta in forma jazzistica gli schemi musicali di una vasta area geografica che dal Mediterraneo risale fino alle coste del Baltico. Levante e Nordafrica sono radici armoniche e percussive delle composizioni, che tuttavia incorporano in una sontuosa veste cameristica anche vistosissimi elementi di matrice klezmer, sefardita ed est-europea, ereditati da Cohen attraverso una famiglia di musicisti di discendenza spagnola, polacca, greca. “Seven Seas” sviluppa ulteriormente l’intrigante sintesi pan-mediterranea del musicista, portando al centro le articolate architetture pianistiche del sodale Shai Maestro e rileggendo l’esotismo di “Continuo” in chiave più metropolitana. La title track è, come altri brani del disco, un florilegio di tempi composti, incastri poliritmici e armonie in minore: gli amanti degli Area non potranno che restare affascinati. Altri pezzi sfruttano l’organico fiatistico (trombone, sax, flicorno, corno inglese) per ridurre la concitazione e dar vita ad atmosfere più distese, ingentilite - ma al tempo stesso arricchite di tensione - dalla presenza di innesti vocali e accorti giochi di diradamento e intensificazione ritmica. Fondamentale per l’efficacia delle strutture l’apporto di un altro collaboratore ricorrente di Cohen, il percussionista Itamar Doari, il cui estro anima gran parte delle tracce con un tessuto ritmico mai troppo appariscente ma sempre in continua mutazione. L’esplorazione ricombinatoria delle molteplici influenze tradizionali di Cohen continua nel 2019 con “Arvoles”, altro lavoro pienamente riuscito inciso questa volta con una formazione prevalentemente nordeuropea. Tigran Hamasyan – Shadow Theater (Verve, 2013) Del pianista armeno Tigran Hamasyan questo sito si è occupato più volte, e con toni sufficientemente entusiastici da rendere molti lettori familiari col suo stile fortemente eclettico e personale. Pilastro della poliedrica tavolozza espressiva del pianista è l’eredità musicale del suo paese natale. Arroccata sul Caucaso - una delle regioni etnograficamente più ricche del globo - l’Armenia è per Tigran Hamasyan fonte creativa e meta ultima di ogni sua peregrinazione stilistica: un serbatoio inesauribile di melodie, ritmi, riferimenti storici e liturgici che animano l’ispirazione del musicista anche quando esplora territori musicali apparentemente lontanissimi. L’album qui proposto è il terzo inciso dall’artista a proprio nome e predata le sue crescenti incursioni in territori ambient/cameristici e djent: anche grazie al contributo del norvegese Jan Bang, invece, sono ben evidenti gli elementi elettronici, che punteggiano diversi brani e fanno da colonna portante di episodi come “Drip”. Altrove, è invece la batteria di ascendenza drum’n’bass di Nate Wood (Kneebody) a muovere gli equilibri verso coordinate nu jazz. Protagonista indiscussa del camaleontico jazz-rock del disco è comunque sempre la rivisitazione che Hamasyan fa della tradizione musicale armena, in cui trabordanti complessità metriche e armoniche si intersecano con gli echi spirituali dell’intricato panorama del Cristianesimo orientale. Brano-simbolo dell’Lp è la torrenziale “The Court Jester” che, tra voci eteree e bordate piano-basso-batteria in tempi ultradispari, arriva a lambire sponde davvero prossime allo zeuhl celestiale di formazioni come Eskaton e Dün. Più ancora che negli episodi discografici successivi, in “Shadow Theater” brilla la personalità cangiante del giovane pianista, della quale traspare tanto il forte attaccamento emotivo con le proprie radici culturali quanto il desiderio di esplorare ambiti musicali alieni sia alla tradizione caucasica che all’ortodossia jazzistica. Il risultato è un album estremamente vario e originale, nel quale sono già presenti, in nuce, tutte le future direzioni espressive lungo cui si svilupperà negli anni seguenti la carriera dell’artista. Amir ElSaffar - Crisis (Pi Recordings, 2015) Anche la produzione di Amir ElSaffar, trombettista chicagoano figlio di padre iracheno, è molto diversificata sia in termini di stile che di immediatezza espressiva. Il suo interesse per la musica del Vicino Oriente prende il via al volgere del Millennio, quando si imbatte nelle tecniche esecutive del trombettista egiziano Samy El-Bably, in grado di produrre quarti di tono. Incontrato il musicista nel 1999, sviluppa un suo approccio ai microtoni prima con l’ausilio di una slide trumpet, poi con il suo strumento ordinario. Attraverso variazioni nell’imboccatura, ElSaffar può così evitare l’"appiattimento" sul nuovo temperamento equabile introdotto dall’approssimazione sui quarti di tono e accedere alla piena varietà delle possibilità melodiche e armoniche ottenibili a partire dal maqam classico. Sentendo il bisogno di perfezionare sul campo le sue nozioni teoriche, si reca prima a Baghdad e poi a Londra, dove studia i principi del maqam acquisendone gli aspetti vocali e le tecniche esecutive al santur (è curiosa la vicenda che lo conduce da una città all’altra: giunto in Iraq con pochi mesi d’anticipo sull’esplosione della Seconda Guerra del Golfo, musicisti locali gli avrebbero detto, con stupore: “Ma che ci fai qui? L’unico a conoscere ancora l’intero repertorio vive a Londra!”). Gli anni attorno al 2010 sono quelli della più intensa sperimentazione linguistica da parte di ElSaffar, che in combutta col sassofonista e musicologo di origini persiane Hafez Modirzadeh conduce ricerche approfondite sulla “cromodalità” - termine coniato da Modirzadeh per indicare la rielaborazione della microtonalità, del maqam e del suo parallelo persiano dastagh in campo jazz. I risultati sono raccolti negli assai ostici “Radif Suite” (2010) e “Post-Chromodal Out!” (2012). Assai più potabili, ma parimenti stimolanti e rappresentativi della ricca espressività di ElSaffar, sono i tre lavori etichettati Two Rivers Ensemble, che culminano con “Crisis”. Negli anni immediatamente precedenti alla realizzazione del disco, ElSaffar abita a Il Cairo e in Libano, dove assiste alla brutale repressione delle Primavere Arabe e collabora con musicisti in fuga dal sempre più babelico conflitto in Siria. Frutto di shock, rabbia e disillusione per la condizione del Medio Oriente per come la ha vissuta, l’album supera il relativo astrattismo delle due opere precedenti approdando a uno stile vigorosamente dinamico e comunicativo. Ad accompagnare il trombettista, cinque musicisti occidentali e mediorientali di grande levatura, a loro volta esperti nell’utilizzo microtonale dei rispettivi strumenti. Più compìto, ma pienamente riuscito e sorprendentemente melodico, è “Alchemy” (2013), che vede un quintetto capitanato da ElSaffar prodursi in un’esplorazione formale delle “armonie alternative” fondate su scale microtonali di origine babilonese e/o sulla sovrapposizione ragionata di più sistemi intervallici. Ibrahim Maalouf - Kalthoum (Mi’ster Productions, 2015) Il trombettista libano-francese Ibrahim Maalouf è personaggio in vista del panorama culturale francese: autore di colonne sonore, di una sinfonia e di concerti trasmessi dalla Tv nazionale, ha ricevuto nel 2015 l’Ordine al Merito dalle mani del Presidente della Repubblica François Hollande. Figlio d’arte, ha perfezionato l’utilizzo della tromba a quarto di tono ideata dal padre Nassim Maalouf per permettere l’esecuzione di temi musicali costruiti sul sistema arabo del maqam. L’uso altamente melodico delle inflessioni microtonali - che ricordda le escursioni turcheggianti di Don Ellis, tra i primi ad adottare l’innovazione di Maalouf padre - donano alla musica di Maalouf una fluidità cromatica immediatamente riconoscibile, apprezzata peraltro anche dalle numerose star internazionali che l’hanno voluto al loro fianco (da Sting a Natacha Atlas, passando per Trilok Gurtu e Vanessa Paradis). Versatile e nient’affatto ostile agli sconfinamenti in campo pop (si veda il contributo al capolavoro world “a più mani” “Lamomali”, del 2017), il trombettista porta avanti con personalità un percorso di rielaborazione della cultura musicale del Mediterraneo sudorientale, che ha in “Kalthoum” uno dei suoi episodi più rappresentativi. L’album è dedicato a una delle figure musicali più celebri del mondo arabo, la cantante egiziana Umm Kulthum, e reinterpreta a mo’ di standard la lunga composizione “Alf leila wa leila” (“Le mille e una notte”), scritta per l’artista da Baligh Hamdi, autore di punta dell’Egitto musicale degli anni Sessanta e Settanta. A supporto di Maalouf nell’impresa, una formazione di primo livello che vede presenti il contrabbassista Larry Grenadier (Brad Mehldau Trio) e, in qualità di co-arrangiatore dei brani, il pianista tedesco Frank Woeste. L’alchimia generata da Maalouf e accoliti è elegante, dinamica e ammaliante, e combina con brillantezza l’eccellente qualità melodica dei temi con elaborazioni strumentali ricche e stratificate. Dello stesso anno di “Kalthoum”, l’orecchiabilissimo “Red And Black Light” esplora efficacemente il versante più fusion della musicalità di Maalouf; “Levantine Symphony no. 1”, del 2018, inaugura invece un connubio tra jazz, rock, musica classica e musica tradizionale su cui - c’è da aspettarsi - il musicista tornerà ancora negli anni a venire. Daniel Herskedal – The Roc (Edition Records, 2017) È raro, in ambito jazz, incontrare formazioni ristrette che contengano un bassotuba; meno comune ancora è trovarlo al centro dell’alchimia sonora, come strumento leader. Eppure è proprio ciò che accade col norvegese Daniel Herskedal, nato nel 1982 e da un decennio a questa parte particolarmente attivo nei territori al confine tra jazz cameristico e musica tradizionale. La sua ricerca musicale lo ha condotto a sperimentarsi come arrangiatore in ambito folk (consigliatissimo “Mojhtestasse - Cultural Heirlooms”, con la cantante sami Marja Mortensson), ma anche ad approfondire la musica di terre assai lontane dalla Scandinavia. Dalla fine degli anni Duemila, in particolare, l’interesse del musicista si concentra sul Medio Oriente, nel quale conduce numerosi viaggi che lo portano a stringere legami con artisti locali. È soprattutto collaborando col suonatore di oud Maher Mahmoud, siriano ma dal 2013 residente in Danimarca, che Herskedal acquisisce nuovi strumenti teorici e compositivi: scale, modi e ritmi tipici dell’area mesopotamica diventano parte fondamentale del vocabolario del fiatista, che a partire dal 2015 di “Slow Eastbound Train” li incorpora in modo crescente nella propria musica. “The Roc” è, al pari del successivo “Voyage” (2019), l’album che meglio rappresenta il mondo sonoro di Herskedal: supportato da viola, violoncello, pianoforte e percussioni, il suo bassotuba si rivela strumento di insospettabile varietà espressiva, capace di evocare ora atmosfere torbide e concitate, ora paesaggi di estrema calma e luminosità. Sia che l’ispirazione dei brani rifletta l’eredità nordica (“The Krøderen Line”), sia che richiami esplicitamente le culture mediorientali, lo stile del quintetto si mostra coeso nel coniugare le differenti influenze geografiche. L’approccio di Herskedal non è filologico - il musicista non cerca di porsi come depositario di tradizioni non sue - ma lascia trasparire appieno la dimensione emotiva del viaggio e il fascino per la ricchezza delle culture incontrate. Come già suggerito dai titoli, “Kurd Bayat Nahawand To Kurd”, “Hijaz Train Station”, “There Are Three Things You Cannot Hide: Love, Smoke And A Man Riding On A Camel” sono lampade magiche capaci di far scaturire interi scenari - montagne, deserti, viandanti, carovane - completi di sottili giochi di atmosfere e sensazioni. Ciò che invece la semplice lettura della tracklist non può suggerire è la raffinatezza dell’alchimia third stream di Herskedal e soci, né soprattutto l’irresistibile efficacia melodica dei temi elaborati dal musicista. … altri sei per approfondire… Hijaz – Chemsi (Zephyrus Records, 2011) Si può opinare su quale dei dischi citati in questo articolo sia il più sorprendente, quello suonato meglio, quello col sound più espressivo, su quale artista o formazione risulti più personale e quale invece rispecchi in maniera più fedele la cultura a cui fa riferimento. Riguardo a chi abbia l’interplay più fulminante, però, non sono possibili dubbi: i belgi Hijaz. Il groove acustico di questo quartetto di Anversa è semplicemente fenomenale. Al suo centro sta l’interazione tra le scale arabe, portate con sé dal suonatore di oud tunisino Moufadhel Adhoum, e i tempi sghembi del rebetiko, parte dell’eredità culturale del pianista di origini greche Niko Deman. Oltre alle stabili aggiunte di basso e batteria, nel loro secondo album “Chemsi” (“mio Sole”) figurano anche percussioni, violino, l’oboe duduk e il flauto ney, suonati da ospiti armeni, tunisini, marocchini, indiani. Si ha così una panoplia di elementi timbrici, ritmici, stilistici differenti che danno uno sbocco decisamente infervorato agli stilemi cool jazz che fanno da colonna portante al sound. Sarà un po’ la scoperta dell’acqua calda — Dave Brubeck ci aveva pensato sessanta e rotti anni fa — ma l’efficacia della sintesi è davvero strabiliante. Naïssam Jalal & Rhythms Of Resistance - Almot Wala Almazala (Les Couleurs du Son, 2016) Naïssam Jalal è una flautista francese di origini siriane, formatasi al conservatorio di Parigi e perfezionatasi poi a Damasco (per conoscere la tecnica del faluto ney) e Il Cairo. Molto richiesta in tournée internazionali da un lato e dall’altro del Mediterraneo, fonda nel 2008 il quintetto Rhythms Of Resistence con musicisti francesi di origini nordafricane. Con l’ensemble, esplora le molteplici possibili intersezioni creative tra jazz, musiche tradizionali e linguaggi avanguardistici sviluppati in ambito colto. Esperta di “tecniche estese” di esecuzione al flauto traverso, Naïssam Jalal ha l’invidiabile qualità di combinare fra loro ardimento sperimentale, capacità evocative ed espressive, leggerezza e immediatezza. “Almot Wala Almazala” (“Meglio la morte che l’umiliazione” - un riferimento allo spirito delle fallite Primavere Arabe) è il prodotto di una formazione fortemente affiatata, in cui ogni tassello si incastra perfettamente, delineando un’opera che sorprende per la sua personale combo di libertà e premeditazione. La band è sempre al servizio del flauto, protagonista assoluto della musica: lo strumento della Jalal è in ogni situazione ipnotico e carismatico, sia che calchi le orme di Roland Kirk e Ian Anderson attraverso il sing/play, sia che, come in “Alep”, sia impiegato per creare avvolgenti stagnazioni microtonali. In “Où est le bouton pause de mon cerveau ?”, si lancia obliquissimi unisoni col sax a contrasto con una scansione follemente poliritmica: avrebbe potuto essere una costruzione del tutto gratuita e incomunicativa, invece è capace di coinvolgere e rapire in una perfetta illusione di orecchiabilità. A chiudere questo lavoro di labirintica varietà, gli otto lancinanti minuti avant-chamber jazz della title track, in memoria dei martiri della rivoluzione siriana - e impeccabile sintesi sonora delle molteplici anime del disco. Tarek Yamani – Peninsular (Edict Records, 2017) Il tastierista libanese Tarek Yamani, residente a New York dal 2011, è una figura interessante di autodidatta capace di emergere in un ambito tecnico come quello del pianoforte jazz. Ha alle spalle alcune colonne sonore e tre album, di cui l’ultimo, commissionato dal festival di Abu Dhabi, mostra la sua estrosa sintesi arabic jazz nella sua forma più avanzata. Il suo è uno stile altamente dinamico, melodico e accattivante, i cui elementi caratterizzanti sono l’esplorazione dei tratti poliritmici delle musiche khaliji della penisola araba e l’adattamento del maqam alla performance jazzistica. Per perseguire quest’ultimo scopo, il musicista dispone di una tastiera elettronica appositamente riprogrammata su multipli del quarto di tono. L’effetto melodico, decisamente peculiare e per certi versi straniante, è al centro di molti dei più efficaci episodi di “Peninsular”, disco assai variegato e capace di passare da un cool jazz elegante e distaccato a vorticanti costruzioni (arabic)/samba/jazz nell’arco di uno stesso brano (“Gate Of Tears”) o di lanciarsi con sghemba frivolezza su divertissement arabo-caraibici (“Rastprints”). Per descrivere il suo sound, Yamani ricorre al binomio “afro tarab”, di suo conio: tarab è una parola araba che indica contemporaneamente uno stato di estasi indotto dalla musica, e la musica che lo produce. Oltre che efficace per rimarcare le radici al tempo stesso nere e mediorientali, l’espressione risulta particolarmente calzante rispetto alle sensazioni di rapimento che immancabilmente si associano al turbinio ritmico e microtonale delle sue composizioni. Yazz Ahmed – La Saboteuse (Naim, 2017) Spesso associata alla scena nu jazz londinese, con la quale in effetti condivide palchi e collaborazioni, la musica della trombettista Yazz Ahmed è in realtà situata al punto d’incontro tra jazz cinematico e tradizioni mediorientali, e risente tanto delle origini dell’artista (il cui padre è del Bahrain) quanto delle sue frequentazioni in ambienti art-rock. “La saboteuse” è l’album che per primo rende a tutto campo la sua suggestiva visione musicale, e si fa notare proprio per il connubio di ritmi e armonie mediorientali con sonorità big band dalla forte dinamica e dai toni gustosamente retro. Coadiuvata dal clarinetto basso di Shabaka Hutchings (The Comet Is Coming, Sons of Kemet, Melt Yourself Down) e dal chitarrista svedese Samuel Hällkvist (Isildurs Bane), la musicista si alterna alla tromba e al flicorno (del quale possiede una versione a quarti di tono) proponendo in una successione equilibrata brani di sua composizione, pezzi nati da improvvisazioni collettive e due cover assai riuscite: “Bloom” dei Radiohead e “Organ Eternal” dei These New Puritans - entrambe band con le quali l’artista ha collaborato, proprio per la registrazione degli album che contengono i pezzi in questione. Il disco brilla per la sua efficacia melodica e l’onnipresenza di schemi ritmici “desertici”, fortemente accentati e dal sapore esotico; il vero elemento distintivo della miscela è tuttavia il sound, policromo ed evocativo. A questo concorrono in particolar modo l’utilizzo del vibrafono e la prominenza del basso elettrico, che allargano la tavolozza timbrica della band spostandola da un assetto puramente fiatistico verso lidi elegantemente easy listening. Eccellente anche il successivo Lp, “Polyhymnia”, del 2019, realizzato con una formazione ancora più ampia. Out Of Nations - Quest (World Music Network, 2018) La palma di formazione più smargiassa e spettacolare del circondario medi-jazz spetta senza alcun dubbio al sestetto internazionale Out of Nations. Con una band le cui provenienze spaziano dal Baltico al Nordafrica e uno stile che ha la gommosità funky-fusion degli Snarky Puppy, la fiatista e compositrice Lety ElNaggar mette in scena tutta la caleidoscopicità della sua complessa identità geografica. Nata da genitori egiziani e messicani, la giovane musicista cresce e si forma tra Philadelphia, Il Cairo, Beirut e Berlino, e porta avanti studi classici e jazz accanto a un Bachelor of Arts in questioni mediorientali e sud-asiatiche. Quando cotanta ricchezza culturale prende la forma di creatività musicale, si colora di una propensione all’appariscenza e alla grandeur che può tranquillamente far passare i Return to Forever di “Romantic Warrior” per degli impiegaticchi ossessionati dalla sobrietà. Abbracciando senza alcuna remora i toni più sgargianti del folk-pop mediorientale, trascina memorie tradizionali e groove da disco-music ipervitaminizzata in un turbine kitsch che “fa il giro” così tante volte da lasciare stregati. Senz’altro non vi siete mai chiesti come potrebbero suonare dei Weather Report redivivi, ingaggiati con un cachet stellare per lo show di Capodanno della Tv nazionale egiziana - ma non perché non fosse ovvia la necessità dell’esistenza in qualche dimensione alternativa di questa eventualità: è solo che, per una ragione che mai ci sarà dato di sapere, la sua concretizzazione è giunta nel nostro piano di realtà prima che avessimo tempo di articolarne il pensiero. Majid Bekkas, Goran Kajfeš, Jesper Nordenström, Stefan Pasborg – Magic Spirit Quartet (ACT, 2020) Marocchino, il polistrumentista Majid Bekkas è una figura significativa della cultura musicale locale. Codirettore del festival jazz di Rabat, negli anni ha sviluppato un interesse importante per le tradizioni degli gnawa - un’etnia nera originaria del Sahel presente da secoli in Marocco, dove fu tradotta in schiavitù da parte delle locali popolazioni berbere. La musica gnawa unisce elementi comuni alle spiritualità sufi, come il carattere fluido e ciclico delle composizioni, a una matrice riconoscibilmente subsahariana fatta di dinamiche call-and-response e incastri di brevi e incisive frasi ritmico-melodiche (che all’orecchio occidentale richiamano immediatamente lo schema a riff del blues — giusto perché del blues sono probabilmente l’origine). In “Magic Spirit Quartet”, realizzato con una formazione svedese, la musicalità di Bekkas si sviluppa attraverso i suoi strumenti d’elezione (chitarra, voce, oud e guembri, o sentir: un liuto basso a tre corde e dalla forma allungata) e il supporto strumentale di pianoforte, batteria, tromba. Quest’ultima è suonata, in uno stile smaccatamente davisiano, da Goran Kajfeš di Angles/Fire! Orchestra, e dona al sound complessivo un che di torbido, astratto e psichedelico; un inserimento perfetto nel flusso assieme aperto e schematico determinato da Bekkas. … e ancora qualche sorpresa: Gordon Grdina’s Haram – Her Eyes Illuminate (Songlines, 2012) Il chitarrista e suonatore di oud Gordon Grdina è senz’altro l’autore più ostico tra quelli qui citati. Si tratta di un improvvisatore di area free, canadese di origini slovene, che negli anni si è avvicinato a strumenti e sonorità del Medio Oriente e ne ha fatto una parte integrante della sua tavolozza esecutiva. La sua produzione spazia su una gamma stilistica molto ampia, che va dagli astrattismi più incompromissori a lavori dalla forte componente world, senza mai perdere comunque un certo grado di intrinseca difficoltà. Va riconosciuto che, anche all’apice del suo sperimentalismo, il fraseggio di Grdina risulta sempre comunicativo: che sguazzi nei territori di Tim Berne (si veda “Nomad”, del 2020), si circondi di poco raccomandabili figuri della cerchia di Mats Gustafsson o si dedichi a conturbanti esplorazioni free/prog-folk (i recenti progetti a nome The Marrow), l’efficacia espressiva dei suoi abbozzi resta garantita. Volendo individuare un’uscita più rappresentativa, per quest’articolo la scelta non può che cadere sull’unico album degli Haram, ensemble costituito da Grdina nel 2007 con l’intento di creare interpretazioni incendiarie e perfino “eretiche” (haram indica nella teologia islamica condizioni e comportamenti proibiti al fedele) di brani celebri del Novecento egiziano e iracheno. A dispetto degli intenti, le rivisitazioni sono in realtà piuttosto disciplinate e, anche tenuto conto degli inevitabili deragliamenti solistici di carattere avant-, mantengono integralmente l’immediatezza melodica degli originali. L'Hijâz'Car – L'Hijâz'Car (Buda Musique, 2014) Un’inclusione borderline, quella dei francesi L'Hijâz'Car, quintetto di Strasburgo dedito a commistioni musicali sulla frontiera tra musica da camera ed etno-jazz, con una evidente venatura avant-prog. La formazione presenta al suo interno oud, clarinetto basso, contrabbasso e ben due percussionisti, e inizia la sua attività a inizio anni Duemila per poi arrivare, nel 2008, a un’apprezzata collaborazione con la cantante algerina Houria Aïchi. Del 2014 è invece l’album omonimo, interamente acustico e strumentale, in cui la band mostra tutta la sua sorprendente gamma timbrica, ritmica e dinamica. Il tempo vola nelle sette lunghe composizioni del disco, che saltellano con eleganza e una certa costante inquietudine tra Univers Zero e strade di Istanbul, delicatezza e aggressività, zigzag in stile Fred Frith e brillanti riletture di standard (“1973 – Mulatu And The Duke” è un incontro tra un tributo al leggendario jazzista etiope Mulatu Astatke e una cover di “Caravan”, iconica composizione di Duke Ellington che, per via della sua armonia lunare e delle innumerevoli reinterpretazioni, è spesso e con valide ragioni vista come antesignana di qualunque escursione medi-jazz). Gli amanti di Paolo Angeli resteranno certamente stregati dalla galassia di sonorità ruvide e inconsuete che il contrabbassista e compositore Vincent Posty riesce a estrarre dal suo strumento; similmente, è senz'altro ammaliante la capacità dell'altro autore principale, Jean Louis-Marchand, di adattare il clarinetto basso a una varietà straordinaria di contesti ritmici e melodici. Joseph Tawadros – Permission To Evaporate (ABC, 2014) “Cerco di registrare un album all’anno, e che sia completamente diverso dai precedenti”. Orientarsi nella produzione musicale di Joseph Tawadros, polistrumentista egiziano di discendenza copta e naturalizzato australiano, non è per nulla semplice. Virtuoso dell’oud, ha non solo coniato uno stile del tutto ibrido tra musica tradizionale, classica e jazz, ma ha anche l’abitudine di spaziare (possibilmente all’interno di un singolo disco) tra riferimenti geografici e livelli di seriosità estremamente variegati. Così, nel 2010, lo si trova al fianco nientepopodimeno che del trio Abercrombie-Patitucci-DeJohnette per uno splendido esperimento fusion; solo l’anno successivo, eccolo invece col fratello percussionista James e i due chitarristi armeno-australiani Slava e Leonard Grigoryan in un progressivissimo tour de force flamenco-mediorientale in tempi composti (con annessa cover di “Blackbird”). Seguono: un concerto con la Australian Chamber Orchestra, un disco anatol-bluegrass col leggendario banjoista Béla Fleck… E il lavoro che meglio può valere come introduzione illustrativa, ma assolutamente non esaustiva, al suo funambolico universo sonoro: “Permission To Evaporate”, come al solito ma più del solito stilisticamente inafferrabile, e a questo giro particolarmente scoppiettante e arroventato anche grazie alla presenza, inusuale, della chitarra elettrica.

Masaa – Afkar (Traumton, 2014) Dalla Germania, un progetto di jazz vocale incentrato sulle poesie musicate del cantante libanese Rabih Lahoud, che per iniziativa del trombettista Markus Stockhausen (figlio del celebre compositore Karlheinz) incontra nel 2012 un trio tromba-pianoforte-percussioni già consolidato. Quella dei Masaa (parola araba che significa “sera”) è musica intima e ricca di sfumature, con un’impostazione raffinata in cui l’elemento jazz emerge spesso in filigrana, evitando di prevaricare sulla vocazione di chansonnier di Lahoud. I pezzi del loro secondo album “Afkar” (“riflessioni”, “pensieri”) sono strutturati su arrangiamenti minimali, che sfruttano elegantemente silenzi, timbri acustici e sporadiche spigolosità avant-jazz per costruire contrasti tra pieni e vuoti, tensioni e rilassamenti, momenti di concitazione, densi di sonorità mediorientali, e più distaccate atmosfere cameristiche. Dopo l’abbandono del pianista Clemens Pötzsch, nel 2019 entra in formazione il chitarrista Reentko Dirks: l’album più recente, “Irade”, rappresenta una riuscita evoluzione della formula della band in direzione almeno altrettanto suggestiva e personale. Quintet Silsila – Désert du Thar (La Compagnie des Sons Nomades, 2015) “Silsila”, “catena” in arabo, è la genealogia spirituale che nel sufismo connette il discepolo al maestro e questo, una maglia dopo l’altra, direttamente al Profeta. Chissà se dietro la scelta del nome di questa formazione cameristica francese ci sia la volontà di sottolineare come l’essenza della tradizione non stia nell’immobilismo pedissequo, ma nella catena: nella rete di traduzioni e tradimenti (termini, non a caso, con la stessa radice di “tradizione”) che nel tempo conducono da un riferimento al suo opposto. Certamente la musica di “Désert du Thar” ben si adatta a questa concezione: senza aderire stilisticamente ad alcuno specifico canone geografico, pare porsi in continuità con una pluralità di linguaggi regionali, filtrati con discrezione attraverso la lente timbrica del suo assetto contrabbasso-violino-sax-pianoforte percussioni. Balcani, Medio Oriente, Nordafrica i luoghi più evidentemente richiamati dal loro sound riflessivo ma brioso, che rispecchia la composizione multietnica (Tunisia, India, Francia, Grecia) della band. Raccomandato anche un altro progetto del violinista Zied Zouari, “Maqâm Roads”, più esplicitamente incentrato sull’esplorazione dei legami tra Vicino Oriente e subcontinente indiano. Haz’art Trio - Infinite Chase (The Muse Alliance, 2017) È basata in Svizzera questa giovane formazione internazionale, che propone un’alchimia interessante: l’oud della tradizione tunisina, di cui è esperto il liutista Fadhel Boubaker, in combinazione ad architetture ritmiche nu jazz a cura del contrabbassista tedesco Jonathan Sell e del batterista svizzero Dominik Fürstberger. Spigliata e ricca di inventiva, la musica del trio rifugge l’ortodossia world jazz per sperimentare scoppiettanti sequenze di drum’n’bass acustico in abbinamento ai limpidi arabeschi melodici dello strumento a corde. Questo, quantomeno, negli episodi più riusciti, corrispondenti grosso modo alla prima metà del disco. Meno a fuoco la parte restante dell’album, che gioca su composizioni più atmosferiche e diradate, suscitando accanto a un innegabile senso di mistero anche qualche sbadiglio. Zela Margossian Quintet – Transition (Art as Catharsis, 2018) Tra le uscite più “disciplinate” dell’etichetta Art as Catharsis (tra le più incendiarie dell’attuale panorama progressive) figura l’album di debutto della pianista australiana di origini armene Zela Margossian e del suo quintetto. Vincitore nel 2018 del premio dell’Australian Recording Industry Association come miglior album nella categoria world music, il disco è un’esplorazione jazzistica della tradizione musicale armena e potrà ricordare a molti una versione più mite della proposta di Tigran Hamasyan. La musica del quintetto presenta in realtà accanto a innegabili somiglianze caratteristiche proprie: è sì più leggera, briosa e compìta, ma è anche meno incentrata sulla singola visione espressiva della leader. Grazie a un organico che comprende fiati (sax, clarinetto e il flauto anatolico kaval), contrabbasso, batteria e percussioni (a cura del curdo Adem Yilmaz, membro anche dei persianeggianti Eishan Ensemble), “Transition” presenta una ricchezza timbrica e strutturale che si estende a un’area geografica più ampia del solo Caucaso, e rappresenta un esperimento in ambito world jazz decisamente intrigante, promettente e riuscito. Sarāb – Sarāb (Matrisse Productions, 2019) Giovani, parigini, portano un nome che in arabo significa “miraggio” e hanno realizzato il loro primo album grazie a un fundraising da 4500 € sulla piattaforma Ulule. La loro musica fonde un’impostazione jazz-rock dai frequenti spigoli metallici con il melodismo mediorientale di cui sono ambasciatori la cantante Climène Zarkan, di origini persiane ma formatasi musicalmente a Damasco, e il trombonista Robinson Khoury, di radici mediorientali e già apprezzato in “Kalthoum” di Ibrahim Maalouf e “Myriad Road” di Natacha Atlas (ancora con Maalouf). Tra episodi distesi e momenti di concitazione quasi frenetica, risultano articolarmente entusiasmanti proprio i dialoghi tra il trombone e gli altri solisti del gruppo, che nell’incalzante “Limb Of Purity” si fanno timbricamente assai taglienti anche grazie a un uso brillante degli effetti elettronici. Complessivamente la formula è senz’altro ancora da raffinare, ma si presenta comunque ricca di grinta, trasporto emotivo e potenzialità. RomAraBeat – RomAraBeat (Finisterre, 2019) “Jazz” è un’etichetta riduttiva per questa formazione italiana, che affianca musicisti maghrebini, balcanici e nostrani per mettere in musica la fitta rete di intrecci che legano le sponde opposte del Mediterraneo e ne fanno da sempre luogo di scambi tra popoli e culture. Collocata, anche stilisticamente, a cavallo tra diversi territori, la musica dei RomAraBeat combina le tradizioni rom e nordafricane con l’idioma jazzistico, generando una “lingua franca” che sopperisce con leggerezza e fantasia alla volontaria mancanza di rigore filologico nella reinterpretazione delle sue molteplici radici. Clarinetti, pianoforte, oud, fisarmonica, percussioni, voce, salterio sono gli ingredienti principali di questo frizzante pot pourri musicale che condivide con la band di Moni Ovadia e l’ensemble multietnico L’Orchestra di Piazza Vittorio non soltanto alcuni componenti, ma anche un sereno e costruttivo approccio “meticcio” al confronto culturale - una visione che almeno sul piano musicale non dovrebbe destar dubbi in fatto di efficacia e opportunità. Milad Khawam – To The West (XJAZZ Music, 2020) Nasce e si forma a Damasco, ma vive ora a Berlino il trombettista Milad Khawam, tra i pochi in campo jazz assieme ad Amir ElSaffar a riuscire controllare variazioni microtonali col suo strumento senza ricorrere a un “quarto tasto”. Dopo numerosi ingaggi in orchestre occidentali e mediorientali e alcune esperienze di performance elettroniche, è uscito nel 2020 il debutto solistico del musicista. I pezzi di “To The West” iniziano a prendere forma nel 2015, anno in cui il musicista in fuga dalla guerra raggiunge l’Europa attraverso la famigerata “rotta balcanica” (alcune melodie, racconta, sono nate come tentativo di distrazione e autoconsolazione durante le difficili ore del transito illegale tra Macedonia, Serbia e Croazia). Proprio gli influssi ritmici della musica balcanica sono una componente importante del caleidoscopico sound del disco, che unisce a un ricco organico (piano, basso elettrico, batteria e salterio qanun sono suonati da musicisti tedeschi, palestinesi e siriani) anche una grande varietà stilistica. Terez Sliman – When The Waves (KKV, 2020) Uscito per la norvegese Kirkelig Kulturverksted, “When The Waves” vede la cantante Terez Sliman, palestinese nata e cresciuta a Haifa, collaborare col rinomato chitarrista future/avant-jazz Eivind Aarset per un progetto di jazz-pop raffinato, avvolgente e ricco di tensioni atmosferiche. I pezzi presentano arrangiamenti diradati, largamente basati su improvvisazioni dai chiari echi ambient ed elettronici: una scelta in piena linea con l’estetica musicale di Aarset, ma anche adattissima alle virtù interpretative della cantante, capace di unire nelle sue performance vocali trasporto e alterità. Dove tuttavia la voce di Sliman si fa più concitata (es. “When Tables Will Turn”), il sound sa rendersi più ispido, con risultati di grande carica emotiva. Responsabile di gran parte delle composizioni è il suo connazionale Raymond Haddad, che coproduce il disco e si occupa anche di basso elettrico e sintetizzatori modulari; i testi sono invece della stessa Terez Sliman, con la collaborazione in due brani del poeta siriano-palestinese Yasser Khanjar. Harrycane Orchestra - Dark Makam (Galileo Music, 2020) Ricco ensemble fondato in Germania nel 2015, la Harrycane Orchestra coinvolge giovani musicisti accanto a personaggi navigati come il cantante e percussionista Tarkan Yesil e il polistrumentista Joe T. Aykut, entrambi di origini turche (il secondo, peraltro, è stato compositore di noti jingle pubblicitari di prodotti italiani). L’esordio “Phosphorous”, del 2017, si fa notare per la fusione di jazz elettrico e stilemi della tradizione anatolica e mediorientale in generale, richiamando paragoni un po’ sbrigativi con l’etno-prog degli Embryo da parte della critica tedesca. Per il secondo album “Dark Makam”, la band capitanata dal batterista e compositore Harry Alt rifinisce notevolmente la sua formula, chiamando in suo ausilio gli archi del Leopold Mozart String Quartet della città di Asburgo. L’incontro amplia di molto la gamma timbrica della formazione e ne aumenta significativamente le capacità dinamiche: prima soltanto esotica e intrigante, ora la musica della Harrycane Orchestra è avvolgente e ipnotica. Registrato prevalentemente in presa diretta, il disco mette una gran curiosità riguardo alla resa live del gruppo, che si annuncia eccezionale. Motus Laevus – Y (Felmay, 2020) Il fiatista Edmondo Romano è attivo nel mondo progressive/world italiano da tre decenni buoni. Con Eris Pluvia, Finisterre, Höstsonaten ha contribuito a pagine importanti della rinascita prog nostrana. Con Avarta, Orchestra Bailam e numerosi progetti solistici, ha inoltre fin dalla fine degli anni Novanta portato avanti percorsi davvero preziosi e personali nelle terre di confine tra progressive folk, jazz e tradizioni mediterranee. Tra le tante uscite che meriterebbero una segnalazione, la scelta cade sulla più recente: il disco a nome Motus Laevus, che vede gli strumenti di Romano inseriti in un trio ance-chitarre-tastiere italo-sloveno, di ospiti per percussioni e batteria e della coppia Pivio/Aldo De Scalzi (una garanzia in fatto di fusion panmediterranea) alla produzione. Ariosa, cristallina ma sempre incalzante e ricca di tensioni, la musica dell’album unisce le sponde opposte del Mediterraneo combinando temi balcanici e ritmi nordafricani, metri anatolici e svolazzi celtici. Il tutto in una chiave di evidente slancio progressivo, capace di coniugare in ogni momento leggerezza, espressività, inventiva ed eleganza. Meritevolissimo, e del tutto pertinente rispetto al taglio dell’articolo, anche “Sonno Eliso”, del 2012, con ospiti (fra gli altri) Ares Tavolazzi degli Area e il suonatore di oud Elias Nardi (anche lui autore di album significativi). Jakop Janssønn - Bricoleur (Finito Bacalao Records, 2020) Tra le molte collaborazioni di Daniel Herskedal in veste di strumentista e arrangiatore, il debutto solista del percussionista Jakop Janssønn risulta particolarmente riuscito e pertinente rispetto al tema dell’articolo. Come suggerito dal titolo - che dà anche nome al terzetto batteria-violino-bassotuba che anima il disco - la musica dell’album nasce come appassionato patchwork di stili, strumenti e influenze di grande eterogeneità. A livello sonoro, lo si potrebbe definire un inedito esperimento di “jazz folktronico”: denominazione volendo assai fuorviante, visto che le tracce non contengono un singolo grammo di elettronica - ma ciononostante efficace nel suggerire da un lato la luminosità e il tepore acustico sprigionato dal sound, dall’altro il sottile dispiego di tintinnii, tramestii, suonicchi che costellano le composizioni e danno corpo al suono. Anche il capitolo legato ai riferimenti geografici risulterà piuttosto anomalo: il progetto è ispirato alle tradizioni musicali norvegesi, islandesi, russe e sami, che riprende tanto nei titoli quanto nelle costruzioni armoniche e nella strumentazione (che vede la presenza del kantele, sorta di cetra o salterio diffuso nell’area baltica); in gran parte dei pezzi sono tuttavia vistose le influenze mediorientali, che prendono addirittura il sopravvento in diversi degli episodi di maggior durata. Sono le armonie anatoliche — assieme agli archi dell’Orchestra di Tromsø — ad animare le vertiginose dinamiche di “Petsjenga”, e il passo di “Valvedh” non sarebbe altrettanto caracollante se non incorporasse ritmi e percussioni desertiche oltre a incontenibili voltafaccia drum’n’bass (che, ripetutamente, trascinano il disco a un passo dal nu jazz). Accogliente e vitale, intimo e cosmopolita, “Bricoleur” è un album del tutto sui generis, che mostra tuttavia quanto promettenti e variegate siano le strade ancora da percorrere riscoprendo e reinventando le tradizioni di aree del mondo apparentemente distantissime fra loro.

- Storia del progressive - Storia della new wave - Storia del glam-rock - Storia del metal - Storia dell'hard-rock - Storia del grunge - Storia del trip-hop - Storia dell'hardcore - Storia del black metal - Storie del grindcore - Storia del rock di Canterbury - Storia del kraut-rock - Storia del rock psichedelico americano - Storia dell'altro prog - Storia del britpop - Storia del prog italiano - Storia della synthwave - Storia del french touch - Storia del nu jazz - Storia del jazz mediterraneo - Storia di Chicago: post-rock e jazz - Storia del minimalismo americano